MARINA DI GROSSETO – "I'm fine". Sto bene. Lo dice tirando un sospiro di sollievo, seduto sulla brandina sulla quale dormirà stanotte, insieme ai suoi compagni di "viaggio". Lui è Samuel, uno dei profughi che oggi pomeriggio sono stati accolti dal Comune di Grosseto nella palestra di Marina di Grosseto. Samuel ha 26 anni, viene dalla Nigeria e ha una storia alle spalle fatta di bombe e disperazione. Ma te la racconta con una normalità quasi spiazzante. Non prima di essersi presentato, come farebbe un qualsiasi ragazzo che conosce un'altra ragazza: "Nice to meet you Michela", piacere di conoscerti.
Samuel è arrivato a Lampedusa il 18 marzo scorso, insieme ad altri 500 profughi, con i quali ha passato 60 ore, ammucchiati su una barca in mezzo al mare. Ha condiviso il suo viaggio in mare con persone di cui non sapeva nulla, tutte incontrate in Libia. In Nigeria aveva un lavoro e viveva con sua nonna. "Ho perso mia madre quando ero giovanissimo – racconta in un inglese fluente che tante persone non saprebbero parlare nemmeno dopo anni di corso – e sono cresciuto con mia nonna. Nel mio paese lavoravo nel commercio, compravo e vendevo per conto di una società . Ma la situazione non era più gestibile". Scontri e guerriglie sono all'ordine del giorno, soprattutto per motivi religiosi. Cristiani e musulmani convivono a stretto contatto e questo genera attentati e bombardamenti. "Io sono cristiano, la chiesa dove andavo di solito è stata bombordata, a due passi da casa mia. Poi è morta mia nonna e io mi sono ritrovato da solo. E' per questo che ho deciso di partire. Sono scappato in Libia e da lì sono salpato per l'Italia".
Ora è a Marina di Grosseto e non ha la minima idea di quello che lo attenderà nel suo futuro. Si è ritrovato con altre 40 persone, di cui ancora non sa quasi niente. "Non so cosa farò – spiega Samuel – ma sono certo che voglio riabilitarmi, voglio ottenere il permesso di soggiorno e diventare parte della società . Voglio trovare un lavoro che mi permetta di avere una dignità . Qualsiasi lavoro per il momento andrà bene".
Abbiamo parlato per circa un quarto d'ora, contornati da altri ragazzi profughi come lui che ascoltavano la sua storia. Ci salutiamo con una stretta di mano. "Good luck Samuel", "Good luck Michela".
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