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MA È DAVVERO POSSIBILE CALCOLARE IL RISCHIO DI UN INVESTIMENTO?

L’esempio della mela di Keynes e l’applicazione all’economia delle leggi della fisica

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Andando a leggere le varie opinioni sulla causa ultima della recente crisi finanziaria, il parere più diffuso sembra essere quello che, in definitiva: “il crack finanziario che sia stato causato da un’errata valutazione del rischio associato agli investimenti effettuati dagli intermediari finanziari e bancari”. Come dire: una svista colossale dei banchieri sul rischio incorporato dai titoli che compravano e vendevano.

Questa idea sembra  essere tenacemente sostenuta da Alan Greenspan, l’ex timoniere della FED, che per primo l’ha lanciata, per poi confermarla a più riprese. In un intervento non molto datato ha, tra l’altro, affermato: “il problema è che i nostri modelli –entrambi i modelli di rischio ed econometrici –  cosi complessi come sono diventati, sono ancora troppo semplici per catturare la serie completa di variabili che regolano la realtà globale del dinamismo economico …“[1].

Dietro tale opinione sta, pertanto, il concetto che il rischio di un investimento finanziario possa essere valutato correttamente, e che gli evidenti insuccessi dell’informazione siano dovuti in realtà a situazioni di monopolio e/o agli incentivi messi in campo dalla pubblica amministrazione che hanno finito per ostacolare la formazione di prezzi corretti da parte dei mercati. Insomma, la solita storia del troppo poco mercato e dell’ingerenza pubblica che intralcia quella mano invisibile, che in economia tutto aggiusta!

La solita storia del poco mercato

Da tale premessa consegue naturalmente che l’unica strada per gestire la crisi (e prevenirne altre) sia quella di una migliore gestione del rischio da parte delle banche e dei regolatori. Ma come debbano migliorarsi le banche ed i regolatori non è dato sapere, forse – sembrerebbe di intuire – liberalizzando ancora di più il mercato, con regole all’ingresso ancora più leggere e concentrandosi su una politica antimonopolistica ?

Ma veniamo al punto della questione, per capire cosa (eventualmente) ci sia di sbagliato in questa posizione. Ed il punto, sembra strano, ma è forse tutto nella corretta risposta ad un quesito tanto elementare quando ineludibile. E’ effettivamente misurabile il rischio di un investimento? Perché se effettivamente lo fosse, non potrebbe dirsi che l’appello di Alan Greenspan sia da relegare tra le grida di un vecchio economista le cui teorie sono state sconfitte dai fatti della storia. E allora, stanno effettivamente cosi le cose, oppure aveva ragione Keynes nel sostenere che il futuro è incerto, e che i partecipanti del mercato non hanno una conoscenza, nemmeno appena sufficiente, degli eventi futuri ?

Keynes sugli errori di chi vuole applicare il metodo della fisica all’economia scrive: ‘E’ come se la caduta a terra della mela dipendesse dalle motivazioni della mela, se vale la pena di cadere a terra, se la terra volesse la caduta della mela, e dai calcoli errati da parte della mela su quanto distasse dal centro della Terra’. Insomma, secondo Keynes negli eventi dell’economia non ci troveremmo mai nella possibilità di prevedere, come i fisici invece sperimentano quotidianamente di fronte a esperimenti ripetibili, in condizioni equivalenti, come, appunto, la caduta di una mela.

La differenza tra rischio e incertezza

Per cercare di capire come stanno effettivamente le cose nella valutazione di un investimento, dobbiamo necessariamente inoltrarci nelle metodologie che stanno alla base della valutazione del rischio: tecniche, ricordiamolo, che sono largamente usate dagli intermediari bancari nella gestione dei rischi dei loro investimenti[2]. Vediamo di che si tratta, premettendo da subito, tuttavia, che una grande parte degli economisti (tra i quali Keynes) ritiene che occorra sempre distinguere tra rischio ed incertezza e che mentre il primo possa essere misurato, l’incertezza non sia affatto misurabile neanche con il ricorso al calcolo delle probabilità.

Allora, cerchiamo invece di capire come sia possibile condurre un ragionamento che ci porti a fare delle congetture condivisibili per il futuro andamento di un investimento.

Tornando al modello che normalmente si usa, vediamo come si costruisce un portafoglio non rischioso. Per farlo ricorriamo ad un esempio, che semplificheremo al massimo, scusandoci in anticipo con i cultori della matematica per le approssimazioni che introdurremo.

A rassicurazione di tutti però valga il fatto che le semplificazioni apportate al nostro esempio non tolgono nulla al cuore del problema.

Si supponga che un cliente si rivolga ad un operatore finanziario per avere un consiglio su come investire un patrimonio di 100.000 euro e supponiamo pure che il consulente disponga di alcune informazioni relative a due titoli (supponiamo azioni), legati alle società X e Y, e che danno, rispettivamente, per il primo titolo un rendimento medio del 12%, con una variazione media rispetto a questo valore del 16%[3], e per il secondo, un rendimento medio del 10% con una deviazione media rispetto a tale valore del 14%.

In altre parole, il titolo X presenta un rendimento ed un rischio più alto del titolo Y. Poniamo che il cliente, non volendo rischiare, sia portato ad investire tutto il patrimonio nel titolo Y.

Ma è possibile che comprando invece un po’ di titoli X e Y si ottenga un maggior rendimento con un minor rischio?

Un qualsiasi consulente finanziario dovrebbe essere capace di rispondere, e vediamo come.

Maggior rendimento con minor rischio?

Poniamo, per ipotesi. che la società Y e la società X operino, rispettivamente nel settore delle costruzioni ed in quello ecologico, ovvero, in settori che generalmente fluttuano in senso opposto. In tal modo l’investitore ottiene un rendimento medio stabile; quando infatti i rendimenti di Y sono elevati, quelli di X sono bassi, e viceversa.

Adesso si tratta di misurare il grado di variazione comune dei rendimenti dei due titoli, e lo facciamo con operatore statistico noto come covarianza[4], o fattore di correlazione. Se è noto il coefficiente di correlazione dei due titoli considerati (pari, ad esempio, a 0,1) è possibile desumere non solo i rendimenti dei diversi portafogli composti da A e B, ma anche la loro volatilità. Cosi ad esempio, potremmo ottenere investendo il 50% del capitale (50.000 euro) in ciascuno dei due titoli, un portafoglio con un valore di rendimento atteso superiore (11%) ed un rischio inferiore (11,14%) rispetto ad un portafoglio composto dal solo titolo Y (cui corrisponde,come premesso, un rendimento medio pari a 10 e un rischio uguale a 14%).

Un grande affare per il cliente e per il consulente (che bene ha fatto il proprio mestiere), ma soprattutto un grande successo per la scienza economica che avrebbe dimostrato come sia possibile determinare una combinazione di titoli che presenti maggior rendimento e minor rischio dell’acquisto di uno solo. Davvero un’invenzione meravigliosa !

Purtroppo ci sono diverse cose che non funzionano nell’esempio che ho descritto. Cominciamo dall’inizio e, cioè, dai dati utilizzati nei nostri calcoli. Una prima osservazione: per il conteggio del rendimento dei titoli, il nostro consulente si è servito di dati storici relativi ai titoli Y ed X, presi su un periodo di tempo che non ho definito. Ma attenzione,  proprio su tali dati sono state stabilite le due variabili cruciali (rendimento medio e variabilità del titolo rispetto al rendimento) sulle quali si basa il mix di titoli; in altre parole, abbiamo costruito delle medie su dati storici e la combinazione che il consulente propone al cliente di Y ed X è quella che è la migliore in termini rendimento/variabilità. Se ne deduce che se riduco o, viceversa estendo il periodo di osservazione molto probabilmente cambieranno il rendimento e la variabilità media, e quindi la combinazione ottimale. Il discorso allora si potrebbe ricondurre a studiare il periodo migliore o più significativo per l’elaborazione dei dati?  No, purtroppo c’è altro.

Un altro aspetto va, infatti, evidenziato. I dati storici raccolti sono utilizzati per fare delle congetture per il futuro, in definitiva, le medie calcolate (rendimento e variazione rispetto al rendimento) vengono proposte come  indicatori della probabilità di avere nel futuro un rendimento simile a quello medio e che si è registrato nel passato. Tale passaggio è, tuttavia, denso di conseguenze. Vediamole.

L’errore del giocatore e l’esempio della monetina

Il primo effetto è che il risultato medio ottenuto può essere vero solo su un periodo di tempo futuro abbastanza lungo, viceversa, correremmo il rischio di cadere nel c.d. errore del giocatore. Di che si tratta ? Facciamo prima l’esempio di un lancio di una moneta (a due facce, non sbilanciata) che non ha effetto sul prossimo lancio della moneta, così che, ogni volta che la moneta viene lanciata c’è (idealmente) una probabilità[5] del 50% che esca testa ed una probabilità del 50% che esca croce. Supponiamo che una persona lanci una moneta sei volte e ogni volta esca testa. Se concludesse che il prossimo lancio sarà croce perché croce “è dovuto”, allora avrebbe commesso l’errore del giocatore d’azzardo. Questo perché i risultati dei lanci precedenti non hanno influenza sul risultato del successivo lancio, che ha una probabilità del 50% di essere testa e del 50% di essere croce, proprio come qualunque altro lancio. Ma c’è di più.

Vediamo, tuttavia, se esistono leggi statistiche capaci di determinare il risultato del “prossimo lancio”. Poniamoci, quindi, di fronte ad una sequenza di lanci di una moneta e trascriviamone il risultato.  Confrontiamo le due sequenze di poniamo 32 lanci, di una moneta non taroccata:

TCTCCTCTTCTCTCCTTTCCTCCCCTTTCTCT   TTCCCCCTTTTTCTCCCCTTTTTCTCCCCCCT

leggi tutto....

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